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Shoah - Il Giorno della Memoria

 
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Da Auschwitz a oggi: viaggio tra i libri alla difficile ricerca di una memoria condivisa

di Giuseppe Ceretti

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22 gennaio 2010

Il clamoroso furto dell'insegna in ferro battuto "Arbeit macht frei" sul cancello d'ingresso del campo di sterminio nazista di Auschwitz Birkenau, messo a segno il 18 dicembre, assume il significato di un apologo feroce della memoria delle vittime dell'Olocausto. Gli autori sono stati individuati e sembrano essere cinque ladri professionisti che avrebbero agito su commissione di un neonazista di nazionalità svedese.

L'atroce dileggio tornerà, dopo il necessario restauro, a campeggiare sull'ingresso del campo, ma è difficile sfuggire alla carica simbolica dello sfregio recato. Quasi che la memoria, anche della più alta delle ingiurie all'umanità, si possa comunque cancellare con un gesto. Come se ciò che avvenne in quel luogo ingrato nel sud della Polonia si possa annullare facendo scomparire uno dei reperti più celebri. Pare impossibile, contro ragione: ma non è contro ragione ciò che avvenne in quel campo?

La coincidenza dell'atto vandalico con il decimo anniversario della giornata della memoria ci riconduce dunque ai temi sconfinati del significato della memoria, della sua negazione e dell'apparente antinomia tra memoria e oblìo. Proprio la cesura di Auschwitz, scrive Antonella Tarpino in Geografie della memoria (Piccola Biblioteca Einaudi) "ripropone il dilemma se l'oblìo, preservando gli uomini dal potere nefasto dei ricordi più drammatici, non militi un po' anche dalla parte della vita".

Occorre allora evitare lo sconfinamento in campi troppo estesi e circoscrivere la Memoria di cui stiamo parlando qui e ora. Il 27 gennaio è il giorno che fu scelto dieci anni fa dal Parlamento italiano per ricordare l'Olocausto. Una decisione frutto di un compromesso che disinnescò molte tensioni. Nel dibattito entrarono altre date: il 12 giugno, compleanno di Anna Frank, il 16 ottobre, in ricordo del giorno del 1943 quando venne compiuta la razzìa nel ghetto con la deportazione di 1022 ebrei romani. Il 27 gennaio fu una data più europea e meno italiana e servì ad attenuare la portata della scelta rispetto ad atti compiuti sul nostro territorio.
Eppure, sostiene con fondatezza lo storico Giovanni De Luna "una memoria collettiva diventa ufficiale quando a stabilire i confini del patto su cui si fonda interviene la sanzione dello Stato, quando la Memoria si incontra con la Politica e le istituzioni… perché quel patto risulti credibile deve fondarsi sulla ricerca della verità" (da "Le ragioni di un decennio", Storie della Feltrinelli).

Ecco dunque ciò che si celebra il prossimo 27 gennaio. Una memoria collettiva, una memoria ufficiale. Può parere insufficiente; peggio, retorico. Tale memoria resta tuttavia il solo baluardo contro coloro che in nome di altre memorie vorrebbero cancellare milioni di vittime innocenti, migliaia di immagini sconvolgenti, miliardi di parole, negandone l'esistenza alla radice. Un pericolo che non è certo venuto meno, soprattutto ora che si sta spegnendo la voce dei protagonisti di quel calvario e con essi la coscienza di nuove sempre possibili sopraffazioni.
L'imponente e incessante produzione bibliografica su quegli anni, di cui diamo in allegato una sintesi assai parziale che si rinnova e si accresce di anno in anno, è autentica fonte di gioia per le coscienze democratiche. I libri, di oggi come di ieri, siano i benvenuti, per l'eternità. Essi rappresentano l'unico antidoto contro le false coscienze, i non ricordo, l'indifferenza. Essi ci raccontano dello sforzo di tanti intellettuali, scrittori e più semplicemente uomini e donne di buona volontà di dare un futuro alla memoria collettiva, perché non sia vittima di processi di stratificazione per cui un gesto nasconde l'altro, le atrocità degli uni cancellano quelle degli altri. Se la storia dei perseguitati e dei vinti viene dimenticata, non resta che quella dei carnefici di ogni tempo.

Il furto del concetto che reca in sè Auschwitz può avvenire in tanti modi e la profanazione dell'insegna non è purtroppo il peggiore. Se l'Olocausto va ricordato è perché il genocidio assunse caratteri di sistematicità tali da non avere paragoni, nemmeno in una secolare storia carica di efferatezze. La memoria collettiva assume allora le sembianze di "dovere umano reso assoluto e imperativo dopo lo sterminio, ma insieme anche dovere muto, senza parola" (Antonella Tarpino, Geografie della memoria) per l'incapacità di dare un nome allo sterminio, un evento che via via si chiama Olocausto, genocidio, soluzione finale, Auschwitz e ha trovato nell'espressione Shoah, nella sua essenza di parola semanticamente incerta, la definizione più congrua, più dicibile dell'indicibile.

Senza questo dovere di ricordo e di ricerca della verità, anche il perdono diventa esercizio vano perché monco del pentimento e mai si traduce in pace sociale, in vera elaborazione collettiva del lutto. Ed è forse ciò che rende incompiuto il viaggio della nostra Repubblica, anche 65 anni dopo quegli eventi. Un itinerario mai percorso fino in fondo che ha lasciato il nostro Paese in una situazione di permanente fragilità democratica anche di fronte a eventi infinitamente minori e comunque per noi nefasti come gli anni del terrorismo. Pure sul quel versante, come dimostra l'ampia pubblicistica d'oggi dei figli che raccontano dei padri (Ambrosoli, Calabresi,Tobagi, Negri), troppe pagine restano aperte. Ma sono ancora una volta le pagine scritte ad assumere con coraggio e sincerità l'impegno di narrare e di riflettere.
Benedetti siano i libri e chi li scrive.

22 gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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